Il Piacenza degli italiani con Daniele Moretti

A volte è suggestivo sfogliare i nostri ricordi come le pagine di un vecchio libro. Il calcio di una volta, le sue storie e i suoi eroi. Daniele Moretti e il Piacenza si sono trovati e non si lasceranno mai. Tra le sue parole spuntano emozioni contrastanti e la convinzione che il mondo del pallone sia come quell’abito cucito su misura per te. Certi legami, poi, non cambieranno mai.

Piacenza e Gigi Cagni, un ricordo: la stagione 1992/93 e la promozione in Serie A. Quale sentimento prevale sfogliando quei ricordi?

“Sicuramente la nostalgia perché il calcio di oggi non è più lo stesso degli anni novanta. Oggi temi come la tattica e la preparazione atletica hanno il sopravvento sulla poesia e il romanticismo del pallone. Ricordo bene quegli anni a  Piacenza: non eravamo pronti per vincere, direi che eravamo una squadra normale dal punto di vista tecnico ma un gruppo fantastico per altri aspetti. Sono stati 5 anni indimenticabili”.

In quegli anni era anche più facile vedere rose ricche di italiani. Sareste diventati “Il Piacenza degli italiani”.

“Esattamente. La gente parlava di noi, in fondo eravamo tutti italiani. I nostri obiettivi (prima la salvezza e poi la promozione) sono stati raggiunti con grande determinazione ed entusiasmo. In campo e fuori si viveva un’atmosfera diversa, era il calcio delle bandiere, onorare la maglia era un dovere oltre che un piacere. Contavano i valori e il legame con la città, pensa che a volte gruppi di tifosi pranzavano insieme a noi. Oggi sarebbe impensabile”.

Cosa è cambiato invece sul rettangolo verde?

“Se guardo il campo oggi vedo ragazzini di Serie C che si sentono grandi e non sono ancora dei campioni. Manca sicuramente un po’ di rispetto. Un atteggiamento che si riflette anche in campo. Per quanto riguarda il gioco, troppi limiti e regole condizionano lo spettacolo, a discapito della fantasia. Siamo spesso noi addetti ai lavori a complicare le cose, il calcio è più semplice di quanto pensiamo. Manca quel coraggio che ti fa saltare l’uomo e ti strappa un sorriso”.

Cosa ne pensi di queste mode e di questa grande letteratura sulla tattica?

“Se vogliamo ricercare il talento, dobbiamo pensare e agire in modo più genuino, più semplice. Il calcio è un gioco. Quando senti degli allenatori gridare “non dribblare”  ai propri bambini, ecco che ci schieriamo tutti contro la libertà di espressione. I bambini e i ragazzi devono sbagliare. Io ho vissuto il calcio degli anni novanta, quando tanti talenti veri si sono fatti le ossa nei Settori giovanili, forse avevano più libertà o erano meglio consigliati”.

Dicono di te che hai sempre avuto una testa un po’ matta. È vero? Ci racconti qualche aneddoto?

“Io e Gianpiero Piovani eravamo come fratelli, non facevamo niente di particolare ma eravamo bizzarri. Capitava di scherzare sulle difficoltà economiche dell’altro e allora giravano banconote da centomila lire false o scritte sulla lavagna dello spogliatoio come “Vendo Rolex” per prenderci in giro. Che spasso! Lui però i Rolex li aveva davvero. Ne approfitto per salutarlo e fargli i complimenti per la carriera da allenatore (ora al Sassuolo)”.

Tanti ex calciatori si sono poi reinventati dirigenti o allenatori. Quali sono le tue doti e le tue competenze di cui vai fiero e cosa è cambiato da quando hai lasciato il calcio?

“In tanti mi hanno sempre riconosciuto grandi doti da selezionatore (non fu casuale la vittoria del titolo nazionale con la U15 del Piacenza nel 2019). Ho cercato di essere un punto di riferimento per le famiglie dei più piccoli. Abbiamo sicuramente una grande responsabilità, non si tratta solo di trasmettere nozioni. A Piacenza sono stato a capo dell’Area tecnica dal 2018 al 2020 e sento che la mia storia non è ancora finita: rimarrò sempre legato a questi colori”.

Come è finita?

“La causa dello strappo con il Piacenza è da ricondurre ad alcune scelte. Se il direttore sono io scelgo io…ma mi sono comunque lasciato bene con l’ambiente. Con la Pro Piacenza invece ho cercato di costruire partendo dai valori di una grande famiglia e grazie alle conoscenze di una vita trascorsa sui campi di calcio”.

La sensazione è che il calcio sia un po’ il tuo piccolo mondo. Quando te ne sei reso conto? Un’immagine particolare?

“Quando vivi di calcio accadono cose particolari. In qualità di Responsabile tecnico mi è capitato di “fiutare” il talento dopo cinque minuti, così come di sbagliare. La mia dote è quella di capire velocemente se il calciatore vale e cosa può portare alla squadra. Semenza all’Inter, Calli e altri talenti diventati grandi al Sassuolo certificano un lavoro straordinario da parte mia e dei miei collaboratori. Non esiste niente di più gratificante del vedere un tuo ragazzo che ce la fa. Il sogno di tutti è quello di esordire con una maglia importante. Senti che ce l’hai fatta e che sei forte nel tuo lavoro”.

La continuità e la progettazione del calcio dei giovani si vanno a scontrare a volte contro le aspettative e gli interessi del calcio dei grandi. Perché?

“Questo è un paradosso tutto italiano. Grande continuità nel settore giovanile e poi forte instabilità nell’ambiente che ruota attorno alla prima squadra. Cambiamo così spesso dirigenti e allenatori che si rischia di perdere per strada i ragazzi più acerbi. Come fa il ragazzo a crescere? Servirebbe maggiore equilibrio”.

Cosa prevede il tuo futuro? Inutile chiederti se sarai ancora in campo.

“Sono tranquillo, ho creato la mia Academy (la Academy Moretti), un micro Settore Giovanile dove lavorare sulla tecnica individuale e alimentare il serbatoio di talenti per le formazioni professionistiche di Piacenza. Con la giusta metodologia e senza fretta contiamo di far crescere tanti giocatori che sognano la Serie A”.

Segui la Serie A?

“Sono un grande tifoso della Roma, per certi versi la città simbolo delle grandi contraddizioni che caratterizzano il nostro Paese. Viviamo in un ambiente particolare, con otto radio che parlano della squadra tutto il giorno. Recentemente ho assistito a scelte discutibili della società, come l’esonero di un amico e di un grande tecnico come Di Francesco. Come si fa a cacciare un uomo che ci ha portati in semifinale di Champions? Alla società giallorossa serve gente di polso come Conte o Capello, veri condottieri che dettano le regole. O sei con loro o sei fuori”.

Con Daniele Moretti il calcio ritorna improvvisamente un gioco, un passatempo, qualcosa per cui ridere e scherzare. Senza mai prendersi troppo sul serio e con il sorriso sulle labbra sempre pronto all’uso. Un’ultima battuta su Pallotta, l’ex Presidente della sua Roma: “Aveva detto che il suo obiettivo sarebbe stato il nuovo stadio della Roma. Non ce l’ha fatta ed è andato via”. Il calcio, in fondo, è una cosa semplice.

 

Riccardo Amato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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